E’ il più diplomatico dei due,
quello che tratta le relazioni pubbliche, e la prende alla lontana,
con circospezione. Guarda, avverte mostrando una preoccupazione quasi
sospetta, che non è una cosa seria, è un gioco; al limite,
se proprio qualcuno volesse vedercela potrebbe essere una provocazione,
ma una provocazione da niente, i vizi privati che per una volta diventano
pubblici; nulla di più: non prenderla sul serio mi raccomando...
(Ed è il primo che parla). Macché gioco, interviene il
secondo, è una cosa serissima. E poi scusa, perché non
dovrebbe esserlo? Siamo forse meno seri noi di altri? Ma tu hai visto
quel che circola nelle gallerie? (E lo dice rivolgendosi al primo).
Già, ma perché non dovrebbe esser seria? (E stavolta lo
dice chi scrive). Per due motivi. Uno è che il primo, quel primo
che parla sopra, di professione non fa né il grafico né
l’artista, ma ricopre bensì una di quelle cariche pubbliche la
cui immagine mal si accorda con un “vizio privato” del genere. L’altro,
il secondo, che in vece di professione fa il grafico davvero e non è
nemmeno consigliere di Quartiere, più che i lavori ufficiali
qui tira fuori quelli rimasti nel cassetto da chissà quanto tempo;
roba di quando si inneggiava ancora al ‘68 insomma e si credeva che
uno slogan avrebbe sollevato il mondo. “I sogni in tasca” cioè,
come li chiamano entrambi in omaggio, neanche troppo implicito, a un
film che bene o male segnò l’epoca del privato che diventava
pubblico e del personale che diventava politico. Bastano questi
precedenti a rendere la mostra “non seria”? Forse bastano solo a renderla
“non mostra” e a trasformarla in occasione di altro taglio, in una di
quelle cioè dove più che per vedere quel che c’è
alle pareti si va per vedere chi c’è a vederlo. Un’ingiustizia
diranno loro, che però ristabilisce l’Ordine delle Cose rispondendo
all’altra ingiustizia di fare una mostra-non mostra. Comunque sia, è
bene chiarirlo (anche per declinare ogni responsabilità): il
problema non è se prenderli o meno sui serio, è chi glielo
fa fare. Chi glielo fa fare a tutti e due di mettersi in piazza in questo
modo con una mostra all’insegna dei pugni, pardon, dei sogni in tasca,
in tempi che più che allo scherzo inducono al pianto: o nel migliore
dei casi alla malinconia più profonda. Ma loro l’idea la accarezzano
da troppo tempo e anche se non nascondono qualche imbarazzo (sospetto
anche questo) per la singolarità allusiva delle date, 1968-1988,
ormai vanno avanti a testa bassa. E, provocazione delle provocazioni,
non arretrano neanche di fronte alla previsione di inaugurare il 1°
maggio. Bene, se vogliono il martirio lo avranno. A noi spetta il viatico,
ma a loro che spetta? O meglio, che si aspettano? Il primo, (quello
diplomatico) è li pronto a giurare che non si aspetta nulla.
vedrai, tranquillizza, sarà una cosa fra intimi, fra amici e
basta. Il secondo, fedele al proprio ruolo, corregge: si, ma quattro
o cinquemila amici, e forse nemmeno tutti amici... Una cosa non proprio
fatta in casa insomma... E correggendosi l’un l’altro, tipo Gatto e
Volpe, vanno avanti, tra disegni, schizzi, bozzetti, vignette e serigrafie:
questa si, questa no, questa proprio si, questa assolutamente no. Ora,
lasciamoli un momento ai preparativi, e vediamo da soli questi disegni,
in attesa dei cinque-seimila visitatori. Il primo ci sguazza letteralmente
dentro. Ne ha dappertutto. Persino sull’agenda di lavoro, nello spazio
libero tra un appuntamento e l’altro. Tutti, dice lui, all’insegna della
sconclusione. Ma è una civetteria (e lui lo sa bene), perché
poi un filo conduttore c’è, e resiste agli anni e alle tempeste.
Una propensione al racconto, alla fantasticheria grafica, all’illustrazione
onnivora dove c’è di tutto, da Maccari ai video-games. Tante
idee colte al volo e messe giù con prontezza, anche se quasi
mai sfruttate a fondo come avrebbero meritato. Brillanti e felici e
rimaste là, come i sogni in tasca davvero, e soprattutto come
traccia di quel che avrebbe potuto essere e non è stato.
Anche l’altro, anche il secondo, ha i suoi bravi “sogni in tasca”. Solo
che, graficamente almeno, i suoi lui li ha tutti realizzati. In tasca
é rimasta, immutata, la realtà, non i sogni. Che corrono
là, sulla carta, assolutamente perfetti e in equilibrio assolutamente
esatto tra pensiero e invenzione grafica, tra slogan e traduzione visiva.
Insieme alle vignette naturalmente, satiriche, graffianti e amare nel
più perfetto stile Ca Balà. Certo, non sono più
i tempi né di Ca Balàné de Il Male, né
di nessun‘altra di quelle felici palestre di sfrontatezze, di sberleffi
e di invenzioni di ogni tipo. Ormai la retorica opprime da ogni parte,
ed é di quella grigia, ottundente come non mai. E anche la satira
ci é finita dentro, istituzionalizzata anche quella. “Repubblica”,
Io vedete anche voi, ospita “Satyricon” e permette al tetro Forattini
di farsi beffe nientemeno che di Scalfari. A condizione però
che Scalfari ne esca sempre bene, che trionfi su Craxi come su De Mita,
e a condizione anche che si abbia ben chiaro che quella è una
satira concessi va, e che la si fa a dio piacendo, non a suo dispetto.
E Tango? Minaccia addirittura di chiudere L‘Unità ci scherza
su, ci fa le vignette e proclama ogni giorno la propria indipendenza
da L‘Unità. Peccato solo che lo faccia col beneplacito de L’Unità
stessa. Brutti tempi per i sognatori veri, per gli spiriti liberi, sia
che sognino di fare i disegnatori tra una riunione e l’altra, sia che
sognino un nuovo ‘68. E’ chiaro, poveracci, che non hanno più
spazio alcuno. E allora? E allora, o li tengono in tasca i loro sogni
e i loro sberleffi, o decidono di mostrarli agli amici. Sperando nella
loro comprensione, sperando che non infieriscano e che siano davvero
cinque o seimila e non cinque o sei. Che altro dire a questi due che
si accingono incoscienti e felici a incontrare il folto pubblico e l’attenta
critica? Auguri e in bocca al lupo. Ad ogni buon conto, se qualcuno
volesse infierire, possiamo fare i nomi: il primo si chiama Aldo
Frangioni e il secondo Paolo della Bella.
Era l’ultimo dovere, e ora in bocca al lupo di nuovo.