Cronaca di una mancata presentazione:
incontro con Cesare Zavattini
a cura di Paolo della Bella
Tutti sanno che interpretare un sogno è
compito degli psicanalisti e non degli umoristi, ma ci proviamo lo stesso
anche perché non siamo affatto sicuri che sia stato un sogno. Ci
pareva di essere reali o «realisti» quando siamo partiti per
Roma dove ci aspettava Cesare Zavattini per chiedergli un’impressione sull’umorismo,
un pensiero su questo Castello degli umorismi incrociati.
Siamo arrivati nell’ingresso, dove c’erano due damigiane che, visto
da chi stavamo andando, potevano essere pensate «arte», chissà
sculture, e qui ecco che il confine tra sogno e realtà si sfuma:
arte o vino? oppure il vino è arte? non azzardiamo una risposta
per timore di fare una brutta figura.
Suoniamo alla porta, ci aprono e poi... i saluti, i «come va»e
i «cosa fate» e poi le domande si mescolano alle risposte e
viceversa, il reale al surreale, il sogno alla realtà; il pensiero
rifondato: «i pensatori non hanno l’obbligo di pensare ce l’abbiamo
tutti». Ad un certo punto ci butta sul tavolo una manciata di scatole
di cioccolatini: «servitevi» ci dice; noi pensiamo che sia
humour e non li tocchiamo, abbiamo il nostro humour, la nostra mostra così
suddivisa in categorie in cui vede un’insidia: l’insidia delle categorie.
Poi tira fuori dalle tasche un po’ di humour dicendoci che non possiamo
usarlo in certi momenti della giornata e del nostro stato d’animo: usarlo
per i bambini, per le serve, per gli avvocati, etc. ecco il suo pensiero
che inonda la stanza, noi facciamo domande che non escono dalle nostre
bocche e lui risponde; un «grande Vecchio» come lui, sa già
le domande e ha già dato tante risposte. «Tutti sono poeti,
tutti sono umoristi, tutti sono artisti, tutti sono grandi: è una
convinzione. Ma è dura da digerire riconoscere che gli altri sono
grandi. Tutta la vita, tutta la cultura, tutta la storia è basata
sul contrario».
A questo punto noi sappiamo che dice «la Veritàaaa»
e speriamo che non sia un sogno.
Lo aggrediamo con le nostre tavole: Sinè, Steinberg, Wolinski
«OOOH! OOOOH! belli! vuoi che non lo sappia, ma non ho preferenze
per una forma o l’altra di comunicazione, per me il primo cretino che passa
può essere tirato su non a fare quelle cose lì ma l’equivalente
in forme diversissime che non hanno niente di comune formalmente ma alla
cui base c’è questa qualità e capacità che non è
esercitata oggi».
Siamo tutti uguali dice in sostanza Cesare Zavattini. Allora non abbiamo
più dubbi: è un sogno! Ce lo conferma il fatto che noi siamo
seduti al soffitto, mentre lui è bello disteso sulla poltrona. Lo
strano è che abbiamo anche il letto attaccato al soffitto e questo
proprio non lo sopporta e ci redarguisce: «tutto si svolge in una
camera, e quando qualcuno attacca il letto al soffitto questo prende il
nome di avanguardia».
Che in fondo sia vero? ci assalgono dubbi noi che eravamo così
sicuri del letto al soffitto e questo in fondo ci fa pensare. «Oggi»,
come dice lui, «che il pensiero non è adoperato occorre andare
alle radici del nostro modo di pensare, sostituire ai diversi pensieri
un pensiero radicalmente riformato che abbia una capacità di totale
coinvolgimento, che renda partecipi di esso tutti in una apertura completa,
che non escluda alcuno, ponendo termine all’era della «cultura
di pochi». Lo interrompiamo gridando «ma tu non sei Zavattini,
sei Dubuffet» e ci lanciamo addosso strappandogli gli abiti zavattiniani
per vedere se sotto troviamo il costume mentre uno di noi cita a memoria.
«L’arte deve essere individuale, personale e producibile da chiunque,
e non una faccenda delegata a pochi mandatari.., nella città che
io sogno non ci saranno più spettatori; ci saranno soltanto attori».
Una rissa, vestiti che volano di qua e di là, rimaniamo tutti
in mutande... Ma anche nudo Zavattini rimane Zavattini anzi è più
Zavattini che mai «io voglio solo pensare ma non voglio pensare solo
io, voglio che pensino gli altri. So che gli altri pensano già ma
sfugge a quasi tutti che pensano meno. Tu non puoi muoverti se non hai
uno scambio collettivo, la collettività è l’uno nel loro
insieme che non impedisce che ciascuno sia un fenomeno nel vero senso della
parola ma non lo puoi capire se non c’è questa fiducia nell’intelligenza
collettiva».
Unaparoladietrol’altra. Quanti pensieri però! Cosa sono
state queste due ore e mezzo carpite alle preziose ore di Zavattini? Un
sogno, un’intervista impossibile, una richiesta assuda, una lezione di
vita? Tutto fuorché una presentazione a questa mostra; più
di tutto crediamo sia stato un grande abbraccio che la sua (grande) generosità
non ci rifiuta mai.
Qualcuno afferma che Zavattini non è un umorista, ma un «tragico»,
noi non siamo d’accordo anche se quando enfatizza frasi come «siamo
degli estinti viventi» (raccolta, ci tiene a sottolineare, da un
operaio), al solito ci mette addosso dubbi e allora pensiamo che è
un umorista tragico.
Ma in fondo l’umorismo che proponiamo a questa mostra non è
un umorismo tragico?... mica fa ridere, fa pensare.
Eccoci di nuovo al pensiero. OOOOOH! se avesse davvero ragione Zavattini,
fossimo tutti uguali... a lui!