Humour mon Amour
 rassegna di umorismo grafico 1940-1982
a cura del Grupo Stanza

Fiesole -  Palazzina Mangani 12 giugno - 11 luglio 1982
 


 

Cronaca di una mancata presentazione: 
incontro con Cesare Zavattini

a cura di Paolo della Bella 


    Tutti sanno che interpretare un sogno è compito degli psicanalisti e non degli umoristi, ma ci proviamo lo stesso anche perché non siamo affatto sicuri che sia stato un sogno. Ci pareva di essere reali o «realisti» quando siamo partiti per Roma dove ci aspettava Cesare Zavattini per chiedergli un’impressione sull’umorismo, un pensiero su questo Castello degli umorismi incrociati.
Siamo arrivati nell’ingresso, dove c’erano due damigiane che, visto da chi stavamo andando, potevano essere pensate «arte», chissà sculture, e qui ecco che il confine tra sogno e realtà si sfuma: arte o vino? oppure il vino è arte? non azzardiamo una risposta per timore di fare una brutta figura.
Suoniamo alla porta, ci aprono e poi... i saluti, i «come va»e i «cosa fate» e poi le domande si mescolano alle risposte e viceversa, il reale al surreale, il sogno alla realtà; il pensiero rifondato: «i pensatori non hanno l’obbligo di pensare ce l’abbiamo tutti». Ad un certo punto ci butta sul tavolo una manciata di scatole di cioccolatini: «servitevi» ci dice; noi pensiamo che sia humour e non li tocchiamo, abbiamo il nostro humour, la nostra mostra così suddivisa in categorie in cui vede un’insidia: l’insidia delle categorie. Poi tira fuori dalle tasche un po’ di humour dicendoci che non possiamo usarlo in certi momenti della giornata e del nostro stato d’animo: usarlo per i bambini, per le serve, per gli avvocati, etc. ecco il suo pensiero che inonda la stanza, noi facciamo domande che non escono dalle nostre bocche e lui risponde; un «grande Vecchio» come lui, sa già le domande e ha già dato tante risposte. «Tutti sono poeti, tutti sono umoristi, tutti sono artisti, tutti sono grandi: è una convinzione. Ma è dura da digerire riconoscere che gli altri sono grandi. Tutta la vita, tutta la cultura, tutta la storia è basata sul contrario».
A questo punto noi sappiamo che dice «la Veritàaaa» e speriamo che non sia un sogno.
Lo aggrediamo con le nostre tavole: Sinè, Steinberg, Wolinski «OOOH! OOOOH! belli! vuoi che non lo sappia, ma non ho preferenze per una forma o l’altra di comunicazione, per me il primo cretino che passa può essere tirato su non a fare quelle cose lì ma l’equivalente in forme diversissime che non hanno niente di comune formalmente ma alla cui base c’è questa qualità e capacità che non è esercitata oggi».
Siamo tutti uguali dice in sostanza Cesare Zavattini. Allora non abbiamo più dubbi: è un sogno! Ce lo conferma il fatto che noi siamo seduti al soffitto, mentre lui è bello disteso sulla poltrona. Lo strano è che abbiamo anche il letto attaccato al soffitto e questo proprio non lo sopporta e ci redarguisce: «tutto si svolge in una camera, e quando qualcuno attacca il letto al soffitto questo prende il nome di avanguardia».
Che in fondo sia vero? ci assalgono dubbi noi che eravamo così sicuri del letto al soffitto e questo in fondo ci fa pensare. «Oggi», come dice lui, «che il pensiero non è adoperato occorre andare alle radici del nostro modo di pensare, sostituire ai diversi pensieri un pensiero radicalmente riformato che abbia una capacità di totale coinvolgimento, che renda partecipi di esso tutti in una apertura completa, che non escluda alcuno, ponendo termine all’era della  «cultura di pochi». Lo interrompiamo gridando «ma tu non sei Zavattini, sei Dubuffet» e ci lanciamo addosso strappandogli gli abiti zavattiniani per vedere se sotto troviamo il costume mentre uno di noi cita a memoria. «L’arte deve essere individuale, personale e producibile da chiunque, e non una faccenda delegata a pochi mandatari.., nella città che io sogno non ci saranno più spettatori; ci saranno soltanto attori».
Una rissa, vestiti che volano di qua e di là, rimaniamo tutti in mutande... Ma anche nudo Zavattini rimane Zavattini anzi è più Zavattini che mai «io voglio solo pensare ma non voglio pensare solo io, voglio che pensino gli altri. So che gli altri pensano già ma sfugge a quasi tutti che pensano meno. Tu non puoi muoverti se non hai uno scambio collettivo, la collettività è l’uno nel loro insieme che non impedisce che ciascuno sia un fenomeno nel vero senso della parola ma non lo puoi capire se non c’è questa fiducia nell’intelligenza 
collettiva».
Unaparoladietrol’altra. Quanti pensieri però! Cosa sono state queste due ore e mezzo carpite alle preziose ore di Zavattini? Un sogno, un’intervista impossibile, una richiesta assuda, una lezione di vita? Tutto fuorché una presentazione a questa mostra; più di tutto crediamo sia stato un grande abbraccio che la sua (grande) generosità non ci rifiuta mai.
Qualcuno afferma che Zavattini non è un umorista, ma un «tragico», noi non siamo d’accordo anche se quando enfatizza frasi come «siamo degli estinti viventi» (raccolta, ci tiene a sottolineare, da un operaio), al solito ci mette addosso dubbi e allora pensiamo che è un umorista tragico.
Ma in fondo l’umorismo che proponiamo a questa mostra non è un umorismo tragico?... mica fa ridere, fa pensare.
Eccoci di nuovo al pensiero. OOOOOH! se avesse davvero ragione Zavattini, fossimo tutti uguali... a lui!


 
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