La
teoria del grottesco, dell’humour, della satira, sarebbe questa: riduzione
delle sovrastrutture proliferate intorno all’oggetto e al concetto,
distruzione del simbolo. Esempi: pescare le sirene con esche fatte
a cuore (Paolo della Bella), altro che l’omerica cera nelle orecchie;
addomesticare la sfinge come il gatto di casa (Graziano Braschi),
farle fare le fusa sulle ginocchia; dare nome e volto di cicogna al
membro virile (Berlinghiero Buonarroti), rendendo plausibile e anatomica
la favoletta per infanti. A proposito della sfinge: il grottesco è
Edipo. Perché Gruppo Stanza e non
Gruppo Edipo? Questo collettivo sulla via di Firenze e non di Tebe
mira a smascherare a tutti i livelli gli enigmi dello «status
quo». Cioè tende a restituire la sua primordiale nudità
al vero, a spogliarlo dei significati aggregati e artificiali. La
grotta, la Domus Aurea in cui si racchiude è Compiobbi, donde
il suo titolo, il suo diritto a rientrare nella categoria del grottesco.
Ma a parte l’etimologia topografica, grottesco è luce, chiarezza,
linearità. E, infatti, usa la linea, il segno graffito sulla
parete dell’essere dove si riflettono le immagini del mondo (ancora
l’idea della caverna, il cupo antro da cui tentiamo di districare
le ombre inafferrabili e di ricondurle all’essenza). Al punto in cui
siamo, costatato il fallimento e il tradimento della parola, al segno
primordiale ritorna il diritto di fissare le esatte proporzioni. La
via degli occhi è la più immediata, l’immagine non percorre
i labirinti del verbo, le è impossibile mettere in atto trucchi
o mimetizzarsi dietro ammiccamenti pretestuosi (ricordiamo che il
termine parola viene da parabola, paragone: la tecnica del falso eretta
a sistema edificante).
C’è da augurarsi che i tre contestatori del Gruppo Stanza se
ne restino a contestare nel e dal loro recesso di provincia, e non
si lascino prendere dal proposito di spostare la loro azione nel cuore
del sistema contestato, quale potrebbe essere o Roma o Milano, per
esempio. Rischierebbero di non veder più così lucidamente
i loro obiettivi, gli incubi che ancora riescono a scuoterli diverrebbero
ordinaria amministrazione. Le deformazioni si rivelano tali solo se
sono osservate da lontano. Riuscirebbero, tutt’al più, a fare
- come tutti - le debite sproporzioni. Infatti in Italia, e forse
nel mondo, le contraddizioni sono cosi fitte e quotidiane che hanno
reso ottusa ogni capacità di reazione.
La sferzata satirica ha il compito di svelare l’assurdo che è
nel consueto. Ma l’operosa società d’oggi, questa civiltà
perfezionistica e ripetitiva, questa storia senza un minimo d’inventiva,
hanno la virtù di normalizzare (cioè di rendere accettabile,
e di massificare) anche lo straordinario e lo strabiliante, di adattarci
a una irrealtà accettata come fenomeno quotidiano. Siamo così
(disposti al sopruso quotidiano, che c’è dato soltanto e tutt’al
più ormai di sorridere per i vaii squilibri della condizione
sociale, cioè i labili fenomeni d’emergenza. Ma siamo del tutto
incapaci di stupirci per le continue manomissioni della condizione
umana. Non vediamo più, insomma, la prospettiva dell’eterno.
Il nostro destino ha, al massimo, ventiquattr’ore.
Così, diremmo che questi sono tempi oscuri per la satira, per
l’ironia attiva, cioè per l’irrisione riequilibratrice dei
valori. Diceva Swift che un autore che scriva per una sola città,
per una sola provincia, per un solo regno, non merita d’essere letto.
Ma dove è ormai Lo scrittore globale e futuribile, in tutta
questa congerie di letteratura intimistica, analitica, o neorealisticamente
impegnata al capello? Prolissa e lutulenta, questa è una letteratura
cittadina, provinciale o regnicola, che deve passar la mano all’immediatezza
del segno: e quanto più esso è naturale, non sofisticato,
istintivo - come quello dei tre affiatatissimi grafici toscani - tanto
meglio è, tanto più la dissezione è efficace,
tanto più il tabù sarà degradato, tanto più
sarà possibile vedere lo scheletro sotto la polpa. Com’è
il caso di questi disegni, in cui è troppo facile avvertire
un registro macabro.
Si fa presto a dire, macabro, o addirittura gusto dell’orrido. Come
se queste categorie fossero la distorsione del vero, mentre invece
sono la restituzione integrale e autentica di esso, l’essenza della
nostra sorte e della nostra storia. Ci vogliono un bel coraggio e
molta lucidità a riconoscersi in quello che si è. Il
resto è letteratura, cioè pigrizia mentale, è
consolazione ingannatrice, è un camuffarsi per dimenticare
la reale anatomia dell’essere.
Lo sconquasso che è in giro è dovuto al conflitto dei
due piani, quello reale, di fondo, e quello dei rituali con cui gli
uomini cercano di sfuggire all’ineluttabile, e inventare tabù
e convenzioni entro cui nascondersi. «Dicendo la verità
si producono disastri», diceva Gregers Werle nell’Anitra Selvatica
di Ibsen. Il mondo è sempre più pronto e disposto a
non riconoscere ciò che è. Soltanto i Nobili Cavalli
del «Gulliver» si rifiutavano di capire «la cosa
che non è».
L’Età della Ragione è governata da stregoni intenti
a falsificare l’esistenza col cumulo quotidiano dei rituali magici,
a inventare illusioni d’uso comune, a esorcizzare la natura e le vocazioni
spontanee creando controfigure, a tentare di far coincidere tutto,
Il bianco e il nero, il buono e il suo contrario, l’apparenza e la
sostanza. La scomodissima satira ha invece la funzione di dimostrare
che in ogni caso nulla coincide, di lottare contro l’abitudine e i
comportamenti cristallizati. E, naturalmente, non può avere
fortuna. Siamo sempre meno disposti a sorridere, a nascondere la testa
nella sabbia come lo struzzo.