" UN SOGNO FATTO

ALLA PRESENZA DELLA RAGIONE "

di Laura Corti

 

Compulsando innumerevoli testi per compilare insieme all’amico Paolo Albani, anomale enciclopedie, Paolo della Bella si è arrestato un poco a riflettere su una definizione, formulata nel 1706 da Tommaso Ceva (1648-1736), secondo la quale la poesia è frutto della: «consapevolezza del carattere fantastico dell’arte da un lato ed esigenza di una sua disciplina razionale dall’altro». Il processo di identificazione che è scaturito da questa lettura ha portato Paolo ad una riformulazione del concetto: un sogno fatto alla presenza della ragione. Con questo titolo assunto come filo conduttore del suo percorso espressivo, rivisitato in tutte le sue tappe, si è tenuta la densa mostra personale di Strasburgo, una sintesi delle sue esperienze sia di segno verbale che grafico.

Vignettista, grafico, pittore, poeta, fotografo, ha fantasticato, discusso, ironizzato, disegnato, scritto, commentato, scattato foto, sognato e soprattutto confessa d’aver vissuto, trovando anche il tempo di pubblicare alcuni libri artigianali, stampati di volta in volta con tecniche ormai desuete, ma proprio per questo affascinanti, quali la serigrafia, la «vecchia» tipografia e la cromolitografia, prodotti però in tiratura limitata, in aperta contraddizione con la loro «riproducibilità tecnica», libri che oggi sono divenuti per l’appunto oggetti da collezione. Il titolo di questo saggio, malgrado la dichiarata ed esplicita attestazione della fonte dalla quale è tratto, si attaglia perfettamente ad esprimere la dicotomia di una intera generazione, quella appunto di Paolo, che ha così interiorizzato l’illusione della «fantasia al potere» da continuare a vivere la realtà quotidiana nel mutevole e cangiante spazio del sogno.

ASCENDENTI

Il fiesolano Paolo della Bella, fedele ai suoi lari e ai suoi penati, vive ed opera nelle stesse dolci colline dove per generazioni e generazioni i suoi avi hanno visto la luce, da un Domenico (vissuto alla fine del XV secolo) che ha generato lo scalpellino Giovanni, gonfaloniere nel 1538, il quale ha generato Domenico e Girolamo. Domenico ha generato Giovanni, scalpellino e capitano dei bombardieri, e Lessandro, scalpellino e gonfaloniere nel 1646, e anche Domenico e Tommaso. Lessandro ha generato Andrea (1594-1674, scalpellino e gonfaloniere nel 1641, che ha generato Gio Batta (1642-1690, scalpellino e gonfaloniere nel 1664, che ha generato Anton Francesco scalpellino e gonfaloniere nel 1689, che ha generato Anton Francesco, Sebastiano e Giuseppe. Quest’ultimo ha generato Antonio, Florindo e Fortunato Maria, anch’egli scalpellino e gonfaloniere nel 1759. Fortunato Maria ha generato Giuseppe scalpellino, che ha generato Luigi Faustino, scalpellino e capo della Filarmonica di Fiesole nel 1833, ecc. ecc. L’albero genealogico di questi artigiani-artisti, molti dei quali impegnati nella vita civica del borgo, è stato ricostruito minuziosamente nel quadro di una ricerca a carattere storico-sociale da Francesco Mineccia, che di parte di questo paziente lavoro ne ha fatto dono di compleanno a Paolo. Né però si può dimenticare che lo stesso nome era portato da quel celeberrimo acquafortista Stefano della Bella (1610-1664), di un ramo che si preferisce definire collaterale della stessa famiglia, incisore brillante e fantasioso nei modi alla Jacques Callot (1592-1635), che ha operato tra Firenze, Roma e Parigi, restituendo il sapore e la vita del suo tempo con una ironia e un segno caricato e gioioso, la cui fragranza è grato rintracciare anche nel suo remoto bis-bis-bis nipote, che dell’avo ha conservato la versatilità non solo nell’aspetto grafico, ma anche nel gusto per la ricerca tecnica, che in Stefano andava nella direzione delle variazioni tonali ottenute con innovazioni quali le morsure di acido a diversa intensità, i ritocchi a puntasecca, ecc. Perché quindi dimenticare questa seconda genealogia nei cui rami è fiorito appunto Stefano, ovvero suo padre Francesco e suo zio Gaspare, figli a loro volta di un Girolamo, e discepoli entrambi del Giambologna, e i suoi fratelli, Girolamo pittore, Lodovico orefice e Giovan Pietro, discepolo di Pietro Tacca. E ancora vi è stato un Orlando di Giovanni della Bella, apprendista di Romolo, un membro di un’altra famosa genealogia fiesolana, quella dei Ferrucci, «dal quale aveva in grado lodevolissimo appresa la bella facoltà d’intagliare in pietra ogni sorta di quadrupedi, de’ quali furon ornate molte ville de’ nostri concittadini» (Baldinucci). Una genealogia però, quella di Paolo, di gente che ha tenuto del sasso e del macigno, come Dante ha definito i fiesolani «Ma quello ingrato popolo maligno / che discese di Fiesole ab antico, / e tiene ancor del monte e del macigno» (Inferno XV.61), che dalla pietra, sia la serena che la forte, cavata dalle ricche cave collinari, ha tratto nei secoli alimento e ancor più insegnamento di mestiere e di arte.

GLI ANNI 60

Negli anni di formazione di Paolo della Bella Fiesole era però un borgo che aveva perso il raccordo con la sua tradizione e le sue risorse. Le cave erano state chiuse l’una dietro l’altra, né avevano più ragione civica i fieri gonfalonieri - tutti scalpellini - come gli avi del nostro. La collina non più generosa della linfa delle sue vene era tornata, per inverso intervento umano, ad essere rimboschita e a celare le ferite di secoli sotto un manto di vegetazione. Oggi infatti non sono quasi più rintracciabili, anche allo sguardo più attento, neppure le carrarecce e i sentieri quotidianamente percorsi dalle maestranze di un tempo. Anche l’altra peculiarità del colle lunato, invalsa definizione della etrusca Faesulae araldicamente registrata nello stemma cittadino, ovvero la produzione - tutta femminile - di paglia lavorata a crochet, si stava estinguendo. Il giovane Paolo ha così la sua formazione a Firenze, città peraltro anch’essa in una fase sommessa della sua storia, seppure sempre ammantata nel ricordo d’esser stata a lungo una capitale dell’arte, per quanto depredata della sua identità quando è stata capitale effettiva dello stato unitario. La quieta e sonnolenta Firenze degli anni Sessanta, è assolutamente ignara che la scena dell’arte sta cambiando prima ancora che la realtà politica e sociale sia percorsa dai tumultuosi eventi del Sessantotto. L’affermazione dell’arte pop americana tra il 1963 e 1964, e la vetrina nella quale viene presentata, neppur troppo lontana nello spazio, cioè la Biennale veneziana del 1964, non riesce a incresparne le acque neppure al fiore. Piuttosto il ‘68 coglie tutti di sorpresa e improvvisamente il tempo viene combusto nel vortice delle esperienze: «Ogni mese è un anno. Ogni giorno un mese. I secondi giorni» (Mauri). Nell’empito delle emozioni del momento anche a Firenze gli artisti e gli intellettuali scendono in piazza, cercano e teorizzano l’incontro con le masse, assumono la lezione sociale marxista e armati di questa coscienza politica spostano i fulcri di incontro nelle Case del Popolo che si aprono al pubblico come vere e proprie gallerie: a Colonnata di Sesto Fiorentino La Soffitta, a Firenze il Circolo Vie Nuove, l’Andrea del Sarto, lo SMS di San Quirico. Ma sono soprattutto i giovani, e antesignani quelli della Facoltà di architettura di Firenze, che già dal 1963 in occasione di una breve e pacifica occupazione ebbero l’agnizione di appartenere ad un gruppo per affinità culturali, intendimenti innovativi e orientamento politico. Il riconoscersi, rapidamente esteso ad una cospicua parte di quella generazione, ha fatto decollare quel principio e quella modalità di lavoro comune che sono stati il filo rosso del comportamento per più di un decennio. L’ideologia politica è stata il potente collante e propellente per la prassi di quegli anni, quando ogni manifestazione, ogni ricerca, ogni espressione è venuta dal gruppo ed è avvenuta nel gruppo. Lo testimoniano una serie di iniziative underground, anche in campo editoriale, dove sono stati preferiti gli slanci dell’improvvisazione e della spontaneità, espressi su carta povera e ruvida da ciclostile, piuttosto che su carta patinata, nel trionfo generale del volantino, del comunicato, del messaggio scritto, facendo garrire gli stendardi degli affetti, dei sentimenti e delle emozioni.

IL GRUPPO STANZA

Non stupisce quindi che, coerentemente con i tempi, in gruppo insieme a Graziano Braschi e Berlinghiero Buonarroti, Paolo della Bella abbia fondato a Compiobbi, un curioso serpentone di case il cui ecosistema è costruito sulla ferrovia, sulla strada statale e sull’Arno, alle pendici delle colline fiesolane, quello che minimalisticamente hanno voluto denominare Gruppo Stanza (1967), cioè un nucleo che più con ironia che con understatement hanno preferito definire di retro-avanguardia nel campo dell’umorismo grafico. Essi infatti sono riusciti a connotarsi fin da subito, nel palpitare delle svariate nuove promesse - molte delle quali mantenute e assai ben note - il che non era facile in una terra di feroci individualisti intrisa di quel graffiante, sanguigno e talvolta feroce humour da personaggio del Decamerone, dove sempre attuale si è dimostrato il detto popolare «Cristo li fece e buttò via il modello». Il loro tratto peculiare, la loro scelta per comunicare l’elaborazione del pensiero e dell’emozione, si è estrinsecata nel recupero delle tecniche artigianali di manifattura e di stampa, una rivisitazione morrissiana di Arts and Crafts, permeata e dettata da un’attenzione alle tecniche grafiche di riproducibilità dell’opera d’arte, che si preciserà nel prosieguo del tempo come: «Tornare indietro per andare avanti, ovvero la tipografia nell’era del computer». Condizionati infatti per loro stessa esplicita ammissione da Walter Benjamin e dal suo fortunatissimo saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, del 1936, ma tradotto in italiano solo alla metà degli anni ‘60 e scelto a dare il titolo di una raccolta di saggi sottotitolata dall’Einaudi “Arte e società di massa”, i tre ne hanno acquisito il senso «per una sua diversa divulgazione». La serigrafia è la loro scelta di recupero di una tradizione artigianale, di quel procedimento di stampa a colori che si avvale di un telaio di legno a cui è fissato un tessuto serico. Attraverso la seta i colori vengono fatti filtrare sul foglio sottostante mediante pressione con una sorta di mattarello di gomma. Le zone del tessuto di seta dallequali un dato colore non deve filtrare vengono rese impermeabili mediante colla. Questa laboriosa tecnica è stata brillantemente adottata per la stampa di due volumi. Il primo intitolato Settantuno (1968), è un libro-oggetto dalla tiratura di novanta copie, tutte numerate a sottolineare l’unicità nella serialità, con 108 serigrafie, di cui ben sei firmate dagli autori, nella più esplicita dichiarazione della dicotomia dell’espressione di gruppo e del contributo personale. Il secondo Settantaquattro (1970), è una densa raccolta di humour nero, con prefazione di Giambattista Vicari. Nel presentare una mostra del Gruppo Stanza nel 1969 Umberto Eco ne rilevava con chiarezza la implicita contraddizione, cioè: «quella che si pone tra disegni immediatamente consumabili e la scelta della serigrafia, del lavoro artigianale sulle finezze materiche, del gusto per gli spessori del colore e la grana della carta. Certo nessuno ... nega che un’opera grafica debba essere anzitutto uno stimolo piacevole, una festa per gli occhi di cui il fruitore vuole circondarsi perché anche la gioia è un elemento di liberazione. Ma quando l’opera gradevole, da guardare per la festa degli occhi, oltre che per l’eccitazione dell’intelligenza, diventa serigrafia preziosa chiusa in un libro, sfogliabile solo per esplicita decisione di chi lo trova sul tavolo del salotto, allora la serigrafia è di nuovo un oggetto prezioso da collezione». La seconda contraddizione rilevata da Eco, non limitata al Gruppo Stanza, ma connessa all’intero universo espressivo dei portabandiera dei multipli: « Perché un multiplo, per combattere la sua battaglia contro l’opera feticcio, deve essere anonimo e ‘consumabile’, nel senso fisico della parola; come un manifesto, deve essere appeso finché piace e poi buttato, sostituito con un’altra immagine. Deve finire di costituire un valore economico per ridursi (o elevarsi) a puro valore estetico o comunque intellettuale». Ma questa che Eco ha visto concettualmente come una contraddizione nel tempo si è venuta connotando come una, non saprei dire quanto conscia, riproposizione di una antica e attestata prassi della grafica, d’essere cioè ilmedium per perpetuare l’effimero, l’occasionale. Penso alla copiosissima produzione di incisioni di feste ed apparati tra Seicento e Settecento, che conservano la memoria di eventi d’occasione godibili dal ‘grande pubblico’ del tempo, come lo definirebbero i francesi, ma ricordati a lungo, nella loro grafica trasposizione, da una cerchia ristretta, che se ne riappropriava una seconda e duratura volta.Il personale percorso artistico di della Bella corre però parallelo al movimento della Poesia visiva con la quale ha in comune la contaminazione linguistica di tecniche molteplici, emulando e caricando gli effetti e i metodi della comunicazione di massa, nell’intento di ripristinare la sfaccettata ambiguità, il valore polisemico di ogni parola o segno, lo spessore simbolico ed allusivo del linguaggio, rintracciando una linea di poetico spessore e una sommessa liricità: una pittura da leggere, una poesia da guardare, quella che aveva avvinto tra molti altri Lucia Marcucci, Eugenio Miccini, Ketty La Rocca, Roberto Malcuori, ma anche Maurizio Nannucci, Adolfo Natalini, ecc. Forse più che le multiformi attività del Gruppo 70 o le mostre del Centro Tèchne sono però le letture a sbrigliare l’espressività di della Bella, e anche queste in piena quotidiana contraddizione, quasi un rifugio nella poesia, quella lirica e sognante come il Canto d’amore di Alfred Prufrock di T.S. Eliot, nella quale si attribuisce alla poesia tutto il suo valore di musicalità. Dopo la devastante alluvione del 1966 Firenze, che si vede ricetto della gioventù del mondo accorsa a dare una mano (della Bella è “Angelo del fango” alla Biblioteca Nazionale), ha però un momento di forte riconoscimento di se stessa e di voglia di fare e di ostruire, oltre che di ricostruire. In questo generale entusiasmo di azione e di ricerca - individualmente in gruppo - Paolo della Bella è indotto nel 1967 a presentarsi al Salone Internazionale dei Comics a Lucca, dove vince la medaglia d’oro, per un nuovo personaggio a fumetti, «per l’economia dei mezzi espressivi con i quali è reso un personaggio sottilmente ironico e provocatore». In quegli anni, inoltre, della Bella e il Gruppo Stanza partecipano a varie mostre; a San Giovanni Valdarno Galleria Il Ponte, Firenze Galleria Inquadrature, Venezia Galleria Il Triglione, come anche Roma e Milano, Napoli, Ravenna.

CA BALÀ

Dalle prove serigrafiche sciolte però, o al massimo raccolte in volume, il passo successivo è stato quello di far nascere una rivista. Nel 1971 infatti i membri del Gruppo Stanza hanno dato vita alla rivista di umorismo grafico e satira politica intitolata Ca Balà, la prima del genere in Italia, che raggiungerà i 50 numeri in un arco di nove anni, fino al 1980, finché ha avuto senso avere il programma slogan «Satira come arma politica». Il nome era stato scelto dal direttore, Piero Santi, come rievocazione di quello di una rivista letteraria da lui fondata nel 1950, nel ricordo di una passeggiata veneziana tra calli e campielli, dove si era imbattuto appunto nelle fondamenta “Ca Balà” nei pressi della Salute. La rivista rigorosamente indipendente, di sinistra, a carattere underground solo per carta e per l’impostazione grafica, si è configurata immediatamente come non provinciale, non fiorentina: anzi una palestra per un variegato gruppo di collaboratori La testata, per anni dalla discontinua uscita e dai multiformi formati, dal 1978 divenne un trimestrale assai raffinato che alla pratica della satira accompagnava note e saggi teorici sull’umorismo. Nel presentarla a Milano nel 1971, Mario Spinella, in un vortice di neologismi, ben ne ha illustrato l’impianto: «Il gruppo che redige ed illustra Ca Balà pone sullo stesso piano di oggetto da sottoporre a critica tutto quanto nella società contemporanea si presenta come negazione o burocratizzazione della fantasia e della vitalità; proprio per questo non deve sorprendere, anzi ritengo che questo sia un punto positivo del giornale, che da una parte, costante, è il tono antifascista di Ca Balà e dall’altra non si perita di sacrilegiare le forme di burocratizzazione, le forme di disumanizzazione, le forme di meccanicismo, di grossolanità e addirittura i falsi scopi intorno ai quali molto spesso si muove anche il movimento di classe in Italia e fuori d’Italia. Io credo che questo sia un grosso merito del giornale, perché di solito un periodico che si proclama di sinistra finisce per essere conformizzato, in un modo o nell’altro, o ad essere impedito per una forma di inibizione interna ed esterna, dal muovere la giusta critica della satira anche alle azioni della sinistra, o viceversa, fa concentrare poi il suo discorso contro questi limiti, queste carenze, questi errori, questi drammi della sinistra, dimenticando che la sinistra si muove in un contesto molto più vasto e l’obiettivo non può essere che in comune». L’amara riprova di tali affermazioni l’ha fornita il tempo intercorso: il Male, altrettanto indipendente, ha prevaricato la pionieristica Ca Balà. A sua volta frenato nella sua corsa, è stato sostituito da Tango - poi Cuore - questi ultimi supplementi dell’Unità, dissolti completamente con la sinistra al governo, come del resto il Satyricon del quotidiano la Repubblica. Ca Balà, anche in questo antesignana ed unica, almeno rispetto ai fogli successivi, si è qualificata ben presto per un suo rigore che vorrei definire disciplinare, proponendo una serie di numeri speciali, a carattere monografico, da quello di gemellaggio con la consorella spagnola antifranchista Hermano Lobo, a quello dedicato all’Enragé, il giornale-pavé del maggio francese, al quale tanto l’intera esperienza di Ca Balà si rifaceva. Un numero è stato poi anche dedicato nel 1973 al centenario della nascita di Giuseppe Scalarini, grafico i cui disegni prima sull’Avanti e poi sull’Asino, avevano intelligentemente, ma ferocemente, ironizzato sul massimalismo dell’umanità socialista alla quale erano destinati, denunciando le responsabilità della borghesia, il fascismo, l’atrocità e l’assurdità della guerra, il clericalismo e lo sfruttamento padronale. A latere del periodico dal precipitante e rotondo titolo fertile e indimenticabile è la produzione di poster quale il Manifesto di Paperone, composto a seguito del golpe di Pinochet in Cile, in cui un enragé disneyano Zio Paperone strepita Golpe in sostituzione del Gulp della mondadoriana traduzione. Anche ilmanifesto fotomontaggio della squadra di calcio alla quale sono state imposte le teste dei parlamentari antidivorzisti da battere con il referendum del 1974, è rimasto altrettanto vivido nell’immaginario collettivo di quello che era affisso all’epoca per le vie e che raffigurava Fanfani accompagnato dalla didascalia: «se aveste sposato un uomo come questo sareste sempre contrarie al divorzio?». Nella scelta del programma volutamente connotato artigianale, come nel suggerirne la riesumazione del nome, ha inciso radicalmente Piero Santi, già direttore della casa editrice Il Fiore, pendant di quella galleria “Il Fiore”, aperta ancora negli anni della guerra per volontà di Ottone Rosai, che ne aveva disegnato il logo: un fiorellino a quattro petali e con due foglioline. Nella sede di via Folco Portinari, ritrovo di artisti e intellettuali, si alternavano mostre collettive (la prima con Carrà, De Chirico, Morandi e Rosai) e personali di giovani promesse (Enzo Faraoni, Carlo Mattioli, ecc.), presentate da quella stessa intellighentzia che era solita frequentare la galleria (Parronchi, Gadda, Ragghianti, Longhi). Santi, a cui Rosai aveva illustrato le Tre storie brevi pubblicate da Il Fiore è stato in seguito titolare della Galleria l’Indiano, aperta nel 1950 in Piazza dell’Olio. In quello stesso anno aveva fondato una rivista letteraria mensile dal nome, appunto, di Ca Balà, rimasta in vita per soli quattro numeri. Questa sua provata attenzione verso i giovani e le loro proposte si è riconfermata nel passaggio di testimone del nome della rivista che da letteraria, in sintonia con i tempi di comunicazione abbreviata, incisiva ed iconica, è diventata grafica, diventando la pepiniera di una intera generazione umorgrafica: «La caricatura, il disegno satirico, l’umorismo grafico, in una parola il ‘segno’ al servizio di un’idea critica da enunciare in violazione di ogni tabù morale, sociale e politico, è indubbiamente una conquista moderna. Tuttavia, nell’ambito di un tale esercizio del ‘segno’, in questi ultimi tempi qualcosa è cambiato. Oggi, nei suoi termini più acuti, l’umorismo grafico non può essere più considerato semplicemente un ‘libertinaggio’ dell’immaginazione, come era definito nella voce dell’Enciclopédie, un lusso e un vizio insomma, da permettersi soltanto negli stati di relax. E tanto meno può esaurirsi nella formula secondo cui ‘il riso fa buon sangue’». Così Mario de Micheli affermava nella prefazione alla cartella di serigrafie Immagini Umorgrafiche (1970) del Gruppo Stanza. Come ha avuto modo di rilevare in un ampio articolo (1979) Antonio D’Orrico: «Di formazione abbastanza sofisticata: i loro modelli provenivano dalla scuola francese - le riviste Hara Kiri, Enragé, Siné Massacre e i maestri che vi collaboravano: Wolinski, Reiser, Chaval, Siné GéBé, ecc., ed escludevano significativamente la tradizione anglosassone e quella di oltreoceano». Luciano Secchi ha anche voluto giustamente stabilire il confronto con il Cannibale (1979). Ma il principio del gruppo, con il gruppo e per il gruppo, il lavoro comune della loro prima formazione si perpetua sia nella rivista che nelle pubblicazioni a latere. L’uno influenza l’altro e a sua volta ne è influenzato, più sul piano dei contenuti che del segno. Forse solo Aroldo Marinai, i cui rilevanti apporti cromatici, sebbene ristretti ad un ambito più tradizionale, come li ha definiti Roberto Coppini nel recensire sull’Avanti la mostra che il gruppo ha fatto a Firenze nel 1969 alla Galleria Inquadrature, ha inciso sulla cromia di Paolo, inizialmente di grafica “nera”. I temi trattati e graffiati con segno brut sono sempre stati scomodi e scottanti, senza dimenticare il sesso e l’anticlericalismo. Un’ironia documento di un tempo: «La grafica del Sessantotto è fatta di configurazioni brutali, sgradevoli, imperniate sulla tecnica di un ‘cattivo disegno’ che a prima vista offende. Abbiamo così i lascivi, degradati eroi della sovversione morale di Charlie Hebdo e di Hara Kiri e la grafica peristaltica e catabolica di Ca Balà» (U. Eco).

NELL’AURA DI DUBUFFET

Personaggio di orgogliosa umiltà Paolo della Bella ha scelto come motto una frase di Cyrano de Bergerac, amatissimo modello per una generazione di intensa contraddizione, come quella sbocciata appunto nei primi fermenti del 1968: «tuttavia, quanto più aumentavano le nozioni del mio sapere, tanto più cresceva la consapevolezza di quelle di cui non ero in possesso». Per sua franca ammissione però Paolo, ha subito la fascinazione di Jean Dubuffet (1901-1985). Questi per insofferenza verso l’estetica tradizionale, così remota rispetto alle esperienze dell’uomo comune, si è volto a scoprire, raccogliere e riproporre come modello le forme di espressione artistica spontanee e immediate, ovvero svincolate da ogni struttura culturale, che ha definito “art brut”, ovvero proprie solo dell’infanzia, dei dilettanti e degli alienati. Della pratica artistica di Dubuffet, le cui opere ha certamente visto e sulle quali ha riflettuto, se non altro proprio a Firenze nella mostra del Fiorino del 1963, dove era esposto insieme a Matta - del quale anche ha subito forte fascinazione - a Paolo della Bella è rimasto un postumo di indagine delle possibilità espressive della materia, però in chiave leggera, tenue, come soffice e aerea è la sua adesione alla teoria. Nel senso cioè che la trasgressione, la rottura verso l’imbustato universo dell’arte e del suo mercato del francese, del resto superata nei fatti e dagli accadimenti, non potrebbe neppure essere propria del fiesolano per il suo temperamento schivo e per la sua - e del Gruppo Stanza - via alternativa di diffusione e consumo di arte artigianale. Da Dubuffet ha piuttosto tratto la percezione dell’immediatezza della comunicazione del segno, sia grafico che verbale, che sente e vive profondamente, da dilettante nel senso etimologico del termine, ovvero che si diletta, con spontaneità, come facendo fluire un’infanzia perenne, una quieta follia, insomma un sogno. «Il professionismo non si definisce soltanto come attività principale e permanente», scrive Dubuffet, ancora lui, nel suo libro Asfissiante cultura, «Le ninfomani non possono essere considerate professioniste dell’amore. Perché lo divengano, occorre che questa attività si trasformi per esse in mezzo di scambio: l’amore non sarà più fine a se stesso e verrà esercitato per ricevere in cambio un altro bene, considerato più prezioso»; mentre Paolo Conte in un’intervista, dichiara candidamente, forse con un po’ di civetteria: «Sono un eterno dilettante, ma mi salvo con l’arma del professionismo».

I COMPAGNI DI STRADA

Compagni nella ricerca, nella sperimentazione, nell'ironia, Berlinghiero Buonarroti dal segno grafico denso, di britannica fragranza, da caricaturista del Punch, stralunato e intenso, più cupo del nostro, e Graziano Braschi di linea vibrante e nervosa, iperdescrittiva ed ossessionato dal dettaglio tecnico che, come promettevano i suoi esordi grafici, ha optato (oltre al «giallo») per la letteratura più che fantastica, horror, diventando uno dei cultori di Stephen King. Nella citata prefazione alle Immagini Umorgrafiche Mario De Micheli li ha così definiti: «Braschi è un disegnatore sottile, inquieto, padrone di una fantasia pungente, capace di far emergere il disagio di un'esistenza estraniata senza forzare il segno, senza romperlo; della Bella, con grafia altrettanto sottile, ma più distaccata punta su di un racconto dalla trama assurda, quasi metafisica nella definizione, intenta però a cogliere gli inganni del sentimento, gli 'sbagli' del cuore; Buonarroti, con un segno più marcato, più drastico, tende invece a mettere energicamente in evidenza, con una punta di sarcasmo, gli scompensi di una realtà solo in apparenza scorrevole su binari prestabiliti. Sono tre giovani artisti che vogliono portare, in un genere spesso degradato sino alla regressione psicologica, un accento diverso, una linfa nuova, rivedendone gli assunti e le finalità; ambizione non da poco, e per giunta ambizione solitaria nel senso in cui questi tre amici sogliono lavorare. Ma i risultati, perseguiti già da qualche anno, sono qui ed ognuno li può giudicare. Per conto mio, senza nascondere i passi difficili che una simile impresa deve affrontare, considero già le loro prove come una proposta positiva, aperta ad un discorso sicuro e possibile».

Paolo della Bella ha però sviluppato la qualità del suo segno grafico, la sua sintesi espressiva e la sua semplificazione tutta risolta in linee, tenendo davanti agli occhi e somatizzandola emozionalmente la successione delle litografie di Picasso, dedicate al toro ed eseguite tra il 5 dicembre del 1945 e il 17 gennaio del 1946. Viste in sequenza sono ovviamente il manifesto picassiano per eccellenza che ripercorre a rebours l’evoluzione della forma, dalla sintesi della pittura rupestre, alla geometrizzazione dell’arte arcaica, alla resa realistica-naturalistica di forma e volume. La scomposizione in geometria essenziale, dal volume alla linea, per passaggi successivi di evidenziazione delle masse del possente corpo dell’animale fino ad esprimerne finalmente la scarnificazione assoluta, però nel rispetto della bilanciata proporzione dell’insieme, l’idea astratta ed assoluta di toro. Individuato il modello-processo Paolo della Bella - quel multiplo individuo che si esprime anche con parole, che verseggia - lo impiega anche in sintesi testuale, nella via indicata da Giorgio Manganelli, in un’intervista a Giovanardi: «Ho l’impressione che i racconti di Centuria siano un po’ come i romanzi cui sia stata tolta tutta l’aria. Ecco: vuole una mia definizione del romanzo? Quaranta righe più due metri cubi di aria. Io ho lasciato solo le quaranta righe: oltretutto occupano meno spazio, e lei sa bene che con i libri lo spazio è sempre un problema enorme». Ovviamente è l’ironia di questa definizione a toccare e far risonare il diapason di Paolo, più ancora della rigorosa sintesi grafica picassiana. Picassianamente in sequenza di semplificazione la serie di ritratti femminili, il primo di fonda seduzione negli occhi marcati, il secondo contrapposto dall’iperrealismo di un incongrua pamela, dismessa perché il tempo delle passeggiate all’aria aperta è ormai passato. Il terzo è una disperata espressionistica nipotina di Schiele. Oltre che grafico però Paolo della Bella si è sempre espresso combinando parole, con quello spirito di poesia visiva e di poesia sonora del quale si è già fatto cenno. Ha pubblicato effettivamente un libro di poesie, stampato nel 1977 dalle Edizioni Collettivo R, Cronologia, con prefazione di Franco Manescalchi, «un libro spavaldo, netto, perentorio» come l’ha recensito Ferruccio Masini sull’Unità (1977). Insomma un politico che è privato, una versione tenuemente lirica di una sua propria via di retro-avanguardia, già vissuta nel gruppo e descritta con partecipato distacco in versi precipitati.

FOTOGRAFARE È BELLO

Non poteva però rimanere immune dal fascino di «un mezzo di riproduzione veramente rivoluzionario», come lo ha definito Benjamin, né rifuggire dall’usare la macchina fotografica per cercare, con l’occhio potenziato dall’obiettivo, di sperimentare ancora e sempre nella direzione del multiplo, cesellato però nei suoi esemplari, nella sua tiratura, non solo quindi mezzo espressivo, ma esito di univocità. Una riproducibilità che esce infine dai volumi rilegati e conservati sul tavolino del salotto e invade le vie. E tutta la sperimentazione dietro l’occhio della macchina è impostata come alternanza, gioco degli opposti: la favolosa M20 dell’Olivetti accarezzata da un panno rilucente, nella preziosità della scelta retrò dell’impeccabile bianco e nero. Trasgressione alla Duchamps invece il cenacolo di Domenico Ghirlandaio, a S. Marco la cui mensa è carica di prodotti come gli scaffali di un supermercato. Il gioco è questa volta condotto a quattro mani con l’amico Liberto Perugi, fotografo dal finissimo talento, artista dell’obbiettivo, la scelta di questo tra tutti i cenacoli fiorentini, è stata dettata certamente in ironica risposta alla copiosità di dettagli dell’affresco. Il ricorso al colore in una foto del 1979, che riprende l’idea di utilizzare una gabbietta, questa volta una borghesissima da gatti o ancora peggio da cani da grembo, nella quale giacciono falce e martello, è giocata sul controluce, che da un senso ancora maggiore di smarrimento e di delusione. Alcune cifre ricorrenti, o elementi costanti di un disagio che fa da sottofondo all’ironia, sempre più condotta su un filo sottile, lieve, emergono con costanza man mano che si allontanano gli anni brut e densamente impegnati. Ne è messaggero il povero Ronzinante, perduto il suo Don Chisciotte, che si aggira con prudenza in un campo di coltelli

CESARE ZAVATTI L’AMATO MAESTRO

Quasi un bilancio, o almeno un ricordo lungo quarant’anni, la mostra fiesolana Humour mon Amour: rassegna di umorismo grafico 1940-1982, allestita alla Palazzina Mangani nel 1982, curata dai tre fondatori del Gruppo Stanza, il cui catalogo è stato stampato da “Il Candelaio” e che si apre con una mancata presentazione di Cesare Zavattini - carpita come intervista da Paolo della Bella - alla quale fa seguito un intervento critico di Luigi Malerba. La mostra era stata suddivisa in sezioni, esplicitate nel loro percorso dall’albero genealogico che si dirama dal tronco dell’humour nei rami di assurdo, nero, costume, erotico, surreale, anticlericale, poetico, politico, antimilitarista, truculento. Tutti i recensori vi hanno visto un riferimento al Castello dei destini incrociati di Italo Calvino. Ma sappiano bene come gli alberi genealogici tendono a unire quanto il tempo e i fatti hanno diviso, pur essendo sorto dal comune ceppo, e non penso solo alle famiglie di sangue, ma alle famiglie religiose, o come si i nterroga Christiane Klapisch-Zuber «la genealogia medioevale e le specificità italiane: affare di stato, di principi, di cittadini ?». Nella ricchissima selezione operata fra la diluviale produzione di più di quarant’anni compaiono in primo luogo i maestri di riferimento del Gruppo Stanza: Siné, Wolinski, Reiser ma anche GéBé, Copi, Searle e ancora Gourmelin, Topor, Folon, Sempé Van den Born ovvero il Professor Pi. In occasione della mostra fotografica dedicata a Paul Strand nella Palazzina Mangani di Fiesole, Paolo ha accompagnato Cesare Zavattini a presentarla il che ha consentito al nostro di avere un nuovo incontro e una lunga conversazione con l’amato maestro, del quale ha sempre nella mente, come didascalia alle sue vignette uno degli epigrammi emiliani di Stricarm’ in d’na parola (Stringermi in una parola):

Lei cosa fa di mestiere?
Svaluto gli uomini
È faticoso?
Macché. Lavoro anche le feste.

Zavattini è stato figura di riferimento per il Gruppo e specifica-mente per Paolo. Fu tramite per il gemellaggio con la rivista antifranchista spagnola Hermano Lobo, e le interviste carpitegli da della Bella sia in occasione della mostra di Strand, pubblicata da Paolo sul giornale locale Fiesole Democratica, sia quella utilizzata come presentazione per la mostra Humour mon Amour, sono un canto e un contro canto, un riscontro tra due tessitori di sogni dotati del talento per creare «immagini come uccelli fosforescenti che sfuggano a frotte e volino impazziti». Il grande vecchio del cinema e della poesia dialettale, il sanguigno e poetico sceneggiatore nell’arte e nella vita, tenero e crudo al contempo anche nei suoi disegnetti, era un vortice di idee «una macchina per pensare soggetti [che] gli venivano a fiotti, quasi contro la sua volontà. E con tale fretta, che aveva sempre bisogno dell’aiuto di qualcuno per pensarli ad alta voce e acchiapparli al volo. Solo che quando li aveva portati a termine si scoraggiava. Peccato che si debba fare un film, diceva. Perché pensava che sullo schermo avrebbero perso molto della sua magia originale» (Garcia Marquez). Con lui Paolo ha avuto un processo fortissimo di timorosa identificazione. In una ripresa poi da fotoreporter, proprio per la mostra di Strand, è fissato l’incontro a Fiesole di Cesare Zavattini e di Gianfranco Contini.

Un giorno però è arrivata Alice e disegni e parole l’hanno accolta festosamente. Anche il nonno adottato per sintonia di sogno l’ha salutata con un abbraccio. La sua ricerca va così nella direzione della partecipata documentazione estemporanea. Si esercita a trarre dallo spunto quotidiano, dalla cronaca - peraltro alta - elementi per realizzare foto che nella loro presunta immediatezza sono meditate, giocate sul contrappunto, sulle linee, sulla geometria di forme e di luce. Anche la foto reportage è, può essere, foto d’artista, ed è comunque un modo di scrivere una cronaca per immagini, una cronaca del proprio luogo, una via per annotare un pezzetto della propria storia. L’occhio ironico che si esprime attraverso l’obbiettivo alterna la ricerca formale al gioco insistito della cattura di particolari, alternativamente con il colore e con l’austero e impeccabile bianco nero, nell’annullamento quasi totale della spazialità, in una resa incorporea e priva delle banali coordinate di alto e di basso. Lo testimoniano certi lavori su commissione, specificamente per il Comune e la Regione e destinati quindi alla comunicazione, alla pubblicità, anche se nel primo caso il messaggio è fortemente connotato da un valore storico e civico. E’ uno sbocco nuovo nella espressività di Paolo, che pur cedendo - in modo frenato - alle esigenze della comunicazione e del mercato, non riesce a non esprimersi in modo sognante, lieve, aereo.

IL GIOCO DELLA COPPIA

Non si sa poi se per gioco o per confermare un’amicizia di una intera vita, e comunque per il piacere e il gusto di un lavoro comune, anche se in una accezione ben diversa dalle esperienze sessantottine, che viene data vita alla mostra I Sogni “in” tasca: una Serigrafia fifty-fifty con 20 + 20 opere di Aldo Frangioni e Paolo della Bella dal 1968 al 1988, al Capo di Buona Speranza a Settignano (Firenze). E’ immediato interpretarla, per via della prima di quelle date affisse a sottotitolo, come la celebrazione di un ventennale che non tiene troppo del privato, del personale e che scandisce gli anni uno per uno, ed ognuno singolarmente con il proprio personale passo e ritmo. Per il primo espositore è stata osservata «una propensione al racconto, alla fantasticheria grafica, all’illustrazione onnivora dove c’è di tutto, da Maccari ai video-games. Tante idee colte al volo e messe giù con prontezza, anche se quasi mai sfruttate a fondo come avrebbero meritato». Per il secondo invece è stato posto rilievo ai sogni che «corrono là, sulla carta, assolutamente perfetti e in equilibrio assolutamente esatto tra pensiero e invenzione grafica, tra slogan e traduzione visiva» (Gianni Pozzi). La conseguenza di questo teatro della memoria, scandito dalla scelta di un disegno per anno prodotto da ognuno dei due, sarà il piacere di lavorare sporadicamente in coppia per fare dono dei risultati agli amici, una sorta di coralità indotta. La sede scelta come scena poi, gestita da ex carcerati sponsorizzati da Michelucci che è anche un laboratorio di serigrafia, si connota come quadro ideale per far da trama a quanto il tempo ha ordito. Il cerchio sessantottino si chiude così nell’uso di luoghi di incontro e di discussione, nonché di lavoro, come vent’anni prima era avvenuto nell’avvalersi delle case del popolo per sedi espositive. Si apre però ormai una nuova fase nella ricerca di Paolo nella quale emerge pienamente il suo senso dell’ironia, il non prendersi troppo sul serio, il suo odiare profondamente ogni seriosità. E’ ora solo grafico e non più humorgrafico e incamminato alla conquista del colore come forma di espressività. Un colore comunque saggiato con prudenza, tentato come materia, steso come si trattasse di un collage oppure sommesso, sordo, per accompagnare piano piano un fotomontaggio, fare da quinta e quasi fumetto ad una serie di intensi ritratti: Primo Conti, Giovanni Michelucci, Cesare Zavattini. Un colore che si fa man mano più sicuro allorché negli autobiografici Sorrisi non solo dichiara apertamente a fatti e a parole di continuare a sognare, a vivere il sogno, ma disvela anche le sue fonti, le sua matrici culturali. Per primo l’adorato Dubuffet, al quale il pamphlet di disegni e poesie, stampato nel 1992 rende debitamente omaggio, ma anche un ricordo di Chagall e dei Fauves e il Matisse dai colori puri e dello spazio sognato. In questa occasione Paolo, riscopre anche le sue radici vere, il rapporto con Buonarroti, insieme al quale riannoda il filo con le tecniche artigianali di stampa, primato, vanto e compiacimento dei suoi primi anni. Riscopre dopo la pausa intimista il gusto di lavorare insieme con professionalità e al contempo con amore e fantasia, o meglio ritrova più semplicemente quel gusto di provare, di cercare, di fare che ha accompagnato il lavoro comune degli esordi. Nel 1994 esce Bugie Vere presentato da Roberto Incerti alle Giubbe Rosse di Firenze, il caffè letterario della Voce. Il titolo ossimoro è stato scelto per celebrare i suoi primi cinquant’anni, ed è voluto come parallelo dei quadri di Van Gogh che non sono ‘veri’ come rappresentazione ma sono ‘veri’ perché esprimono il vero. Il libro oggetto è stampato e confezionato ancora una volta a cura di Berlinghiero Buonarroti, sempre a Compiobbi (Fiesole), e infine illucchettato da Paolo. I disegni di copertina sono stati stampati manualmente con la vecchia tecnica tipografica in dieci colori non retinati, mentre i disegni interni sono in cromolitografia in un totale di quarantacinque colori. Le carte scelte per realizzarlo sono di ben tre tipi diversi, per enfatizzare l’effetto delle vecchie tecniche e degli splendidi caratteri Bodoni delle poesie. Sembra qui di ritrovare un Nabis, di quelli che volano tra cielo e terra, di quelli che come Sérusier credono «in un giudizio finale in cui saranno condannati tutti quelli che hanno trafficato con l’arte sublime e casta, tutti quelli che l’avranno degradata con la bassezza dei loro sentimenti, con la loro vile cupidigia dei beni materiali». E in questi disegni, come nella serie di opere sciolte di tutti gli ultimi anni, la naturale tendenza a divagare, l’apparente facilità della realizzazione e dello snodarsi del sogno nell’ordito dell’insieme, la maniera corsiva, telegrafica, e anche delicatamente ritmica, fanno pensare a un Dufy. Anche se forse, se si dovesse proprio classificare questo recente della Bella, egli potrebbe ricadere in quella categoria decorazione, pittura veloce, spirito ludico» (Roberto Daolio), trovata per dare un ordine agli Anniottanta, quella cioè di un Pablo Echaurren o di un Luca Alinari o ancora di un Plinio Mesciulam, anche se a tutta questa arte di frontiera di suo aggiunge il tocco di un fantasmagorico sogno fatto alla presenza della sonnacchiosa ragione. Del resto Matisse, a chi lo accusava di decorativismo, rispondeva: «L’arte è fatta per decorare la vita degli uomini».

 

 

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